LA CONDANNA A MORTE DI 1800 PRIGIONIERI DI GUERRA ITALIANI


“La tragedia della Laconia”

di Andrea David Quinzi

Era la notte del 12 settembre 1942, la nave inglese 'Laconia' navigava al largo della costa africana nei pressi dell’isola di Ascensione. Si trattava di un transatlantico del 1922 della
Cunard White Star Line da 20.000 tonnellate, al comando del capitano Rudolf Sharp, convertito dagli inglesi in un mercantile armato adibito al trasporto delle truppe. La nave era salpata da Suez il 12 agosto con a bordo 463 tra ufficiali e uomini di equipaggio, 286 militari inglesi, 103 guardie polacche, 80 tra donne e bambini, familiari di militari britannici, e 1800 prigionieri di guerra italiani (altra fonte indica: 136 di equipaggio, 268 soldati inglesi, 160 polacchi, e conferma 1.800 prigionieri e 80 tra donne e bambini). I militari italiani appartenevano alle divisioni Ariete, Brescia, Pavia, Trento, Trieste e Sabratha (ex Verona), fatti prigionieri nel luglio 1942 nella prima battaglia di El Alamein (le fonti indicano più genericamente “fatti prigionieri nella battaglia di El Alamein” generando l’equivoco che si possa trattare di quella più nota dell’ottobre-novembre 1942).

Il mese di navigazione aveva messo a dura prova i nostri soldati, ammassati in tre stive con razioni di viveri inadeguate e con appena due ore ‘d’aria’ al giorno, una al mattino e una alla sera, ma finalmente il viaggio stava per terminare, ancora poche settimane e la nave sarebbe arrivata in Inghilterra. Invece, la notte del 12 settembre, la Laconia finì nel periscopio del capitano Werner Hartenstein al comando dell’U-Boot 156. In relazione con le leggi di guerra osservate dall’Asse e dagli alleati la nave era assolutamente un obiettivo militare: batteva bandiera nemica, zigzagava come di norma a luci spente, e soprattutto era armata, con due cannoni navali da 4.7" pollici, e sei cannoni antiaerei da 3". Colpita da due siluri dopo un’ora e mezzo la nave si inabissò.

L’U-Boot emerse ed a questo punto si accorse che tra i naufraghi vi erano dei soldati alleati italiani. Hartenstein parlò con due di essi e, appresa la composizione dei passeggeri della nave nemica, diede subito ospitalità ai feriti, alle donne ed ai bambini, ed il ponte del sottomarino si riempì di coloro che non avevano trovato posto sulle scialuppe di salvataggio. Ma i naufraghi erano troppi ed il comandante chiese istruzioni al suo comando: 13,9 - ATLANTICO VERSO FREETOWN - AFFONDATO INGLESE LACONIA QU. F.F. 7721 - 310 - PURTROPPO CON 1800 PRIGIONIERI ITALIANI - SINO AD ORA 90 SALVATI - COMBUSTIBILE 157 M3 - SILURI 19 - ALISEI FORZA 3 - CHIEDO ORDINI”.

Informato dell’accaduto l’Ammiraglio Dönitz ordinò il salvataggio dei naufraghi, con particolare riguardo agli italiani, e dispose che altri due sommergibili in zona,
U-506 del capitano Würdemann e U-507 del cap. Schacht, partecipassero alle operazioni di salvataggio. Inoltre avvisò il comando italiano che inviò sul luogo il sottomarino Cappellini, al comando del Tenente di vascello Marco Revedin.

A questo punto bisogna suddividere la vicenda nei due drammatici avvenimenti che la contraddistinsero: quello dell’omicidio premeditato di centinaia di prigionieri di guerra italiani, e quello dei sopravvissuti all’affondamento, rimasti per giorni in balia delle onde. La tragedia più spaventosa, l’orrore più grande, fu senz’altro il primo, che si svolse nei circa 60 minuti trascorsi tra il siluramento e l’affondamento della nave, una vicenda poco nota circondata ancora oggi da un vergognoso silenzio.

LA CONDANNA A MORTE DI 1800 PRIGIONIERI DI GUERRA ITALIANI

Di tragici errori e di drammatici naufragi se ne verificarono purtroppo a centinaia nel corso della Seconda Guerra Mondiale, con colpevoli e vittime in entrambi gli schieramenti. Ciò che rende unico e particolarmente odioso il disastro della Laconia è il fatto che in questo caso la tragedia non fu né casuale né inevitabile. Ecco come essa venne riassunta con assoluta sinteticità nel giornale di bordo del comandante Hartenstein: “Secondo le informazioni degli italiani, gli inglesi, dopo esser stati silurati, hanno chiuso le stive dove si trovavano i prigionieri. Hanno respinto con armi coloro che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio...”. Da fonte non sospetta, uno storico americano, risulta che le scialuppe e le cinture di salvataggio a bordo della
Laconia fossero sufficienti per tutti i suoi passeggeri: “Laconia had enough lifeboats and rafts to support all 2,700 persons aboard her, including the POWs.” [La Laconia aveva sufficienti scialuppe e galleggianti per tutte le 2700 persone imbarcate, inclusi i prigionieri di guerra] (“Hitler’s U-Boat War-The Hunted, 1942-1945”, Clay Blair jr.). Ciò nonostante le guardie polacche ricevettero l’ordine di lasciare i 1800 prigionieri di guerra italiani chiusi nelle stive, condannandoli di fatto ad una morte orribile e premeditata per affogamento.
Possiamo a malapena immaginare il panico ed il terrore che si impossessarono di quegli uomini quando, davanti alle loro disperate richieste, videro le sentinelle rifiutarsi di aprire le sbarre, negando loro anche l’ultima speranza di sopravvivenza tra le acque dell’Oceano.

Le testimonianze su quei tragici momenti sono agghiaccianti, qualcuno dei prigionieri tentò addirittura di suicidarsi battendo la testa contro le pareti dello scafo. Con la forza della disperazione i reduci del deserto si scagliarono contro i cancelli sbarrati, sebbene le guardie non esitassero a respingerli a colpi di baionetta o a sparargli a bruciapelo. Oltre ai racconti dei sopravvissuti la semplice evidenza del tipo di ferite riscontrate su alcuni di essi confermano purtroppo i fatti.

Nel libro
“Sopra di noi l’Oceano”, di Antonino Trizzino, è riportata la drammatica testimonianza del caporale Dino Monti: “Quelli che erano più vicini alla grata, appena i morti e i feriti stramazzavano a terra, ne prendevano subito il posto. La grata si torceva, si piegava sotto la loro pressione. (…) Alla fine i nostri sforzi centuplicati dal terrore, dall’esasperazione, dalla follia collettiva ebbero ragione della grata. Calpestando i caduti ci lanciammo verso le scale.” L’orrore proseguì sul ponte della nave, dove venne fatto fuoco sugli italiani che cercavano di trovare posto nelle scialuppe, e raggiunse il culmine tra le acque dell’Oceano dove vennero trovati alcuni cadaveri di italiani privi delle mani. La spiegazione è ancora nella testimonianza: “Quando si aggrappavano alle scialuppe quei maledetti gli recidevano i polsi perché non potessero più arrampicarsi. Urlavano come bestie sgozzate mentre scivolavano in acqua senza più mani” (Trizzino, op.cit.).
L’emersione del sommergibile tedesco provocò la fine di questa barbarie imponendo una difficile convivenza tra ex prigionieri ed ex carcerieri, accomunati dalla comune condizione di naufraghi in balia delle onde. Tuttavia è facile comprendere quali fossero i sentimenti, anzi i risentimenti, degli italiani sopravvissuti nel ritrovarsi accanto i carnefici di pochi minuti prima, e sapendo che sotto di loro giacevano i corpi gonfi di centinaia di loro commilitoni.

Questa prima fase della tragedia, la più orribile, non solo non è stata mai approfondita, ma ancora oggi viene taciuta come dimostra un esempio emblematico. Il Dipartimento Storico della BBC, gloriosa e meritoria istituzione culturale autrice di documentari televisivi di grande valore, in una recentissima produzione dedicata alla “Guerra dell’Atlantico”, trasmessa domenica 21 luglio 2002 alle nove di sera, ha ricordato l’affondamento della Laconia SENZA FARE ALCUN CENNO ALLA FINE DEGLI ITALIANI. Il tutto il documentario si fa cenno agli italiani in due soli commenti: quando si parla dei passeggeri, “The liner Laconia was homebound from Cape Town with two thousand seven hundred people onboard. Eighteen hundred of them Italian prisoners of war.”
[La nave Laconia si era allontanata da Cape Town con 2700 persone a bordo. 1800 di esse italiani prigionieri di guerra]; e in un breve passaggio dedicato ai naufraghi: “Hundreds of men, most of them Italian prisoners, were struggling in the sea. They were desperate for a place in a lifeboat.” [Centinaia di uomini, in gran parte prigionieri italiani, erano sparsi nel mare. Essi erano alla ricerca disperata di un posto nelle scialuppe].

L’analisi di queste parole conferma implicitamente che tra le acque vi erano soprattutto italiani cui, evidentemente, non era stato dato posto sulle scialuppe occupate dai soli civili e militari inglesi. La parte del documentario dedicata alla
Laconia ha proposto le testimonianze di due sopravvissuti inglesi: una marinaio addetto alle cucine, Frank Holding; ed una donna che nella sciagura perse la figlia, Janet Walker. La vicenda viene di fatto incentrata soprattutto sulla pietosa vicenda della donna che vide per l’ultima volta la figlioletta tra le mani di un ufficiale inglese. Solo nella testimonianza del marinaio c’è un preciso riferimento alla crudeltà verso gli italiani: “…one fellow in the boat says, ‘If any of them are on - hanging onto the side,’ he said, ‘Call out and I’ll give you the hatchet, chop their fingers off” [..uno sulla barca dice, ‘Se qualcuno di loro cerca di aggrapparsi’ egli disse’ gridate ed io vi darò l’accetta per tagliargli le dita].

Di fatto il documentario della BBC non fa alcun riferimento alla tragica decisione che condannò gli italiani, concludendo lo spazio dedicato all’affondamento della
Laconia con un generico commento che trasforma la vicenda in una delle tante tragedie del mare: “One thousand, six hundred people were lost with the Laconia.” [1600 persone perirono con la Laconia], senza alcun riferimento al fatto che dei 1600 morti indicati ben 1400 erano italiani !
Ciò non significa che la storiografia anglo-americana non conosca i termini della vicenda che, nel 1998, è stata ricostruita in tutti i suoi vergognosi particolari in un capitolo del libro già citato dello storico americano Clay Blair jr. (1925-1998), sommergibilista durante la guerra ed autore di numerosi saggi di storia. Ecco come Blair ha ricordato la strage degli italiani: “The Poles who were assigned to guard the POWs refused to unbolt the doors on the pens and consequently hundreds of Italians who survived the torpedoes went down with the ship. Several hundred or more broke out of one pen and scrambled topside, but they were refused places in lifeboats at gun and bayonet point.”
[I polacchi cui era assegnata la guardia dei prigionieri di guerra rifiutarono di aprire i cancelli e di conseguenza centinaia di Italiani che erano sopravvissuti ai siluri colarono a picco con la nave. Diverse centinaia sfondarono uno dei cancelli e si riversarono sul ponte, ma a loro vennero negati i posti sulle scialuppe a colpi di fucile e di baionetta].

Nel corso della ricerca per la stesura di questo articolo mi sono anche imbattuto in un sito di storia dei sottomarini “subnetitalia.it” che, alla pagina
“Battaglia dell’Atlantico -I sommergibili italiani”, così sintetizza l’episodio:“…il Cappellini partecipa al salvataggio dei 1.800 prigionieri italiani affondati con il transatlantico inglese RMS Laconia silurato dall'U-boat U-156 al largo della Liberia.(…)L'operazione di salvataggio sarà eseguita assieme agli U-boat U-156, U-506 e U-507”. E’ facile osservare come la tragedia degli italiani venga qui falsamente dipinta come una normale missione di salvataggio portata felicemente a termine. Non fu assolutamente così, come conferma il racconto della seconda fase della tragedia, quella che si svolse nei giorni successivi all’affondamento. Le fonti, almeno in questo caso, concordano invece nel denunciare le colpe degli alleati.

L’ODISSEA DEI SOPRAVVISSUTI ALL’AFFONDAMENTO

La notizia dell’involontaria strage di ‘alleati’ italiani causata dall’affondamento della
Laconia creò non pochi problemi a Berlino, tanto che la questione venne sottoposta addirittura all’attenzione di Hitler. Nonostante la crudele scelta fatta dagli inglesi (ad onor del vero bisogna ricordare che almeno il comandante della Laconia scelse di affondare con la sua nave), nelle acque intorno all’U-156 annaspavano ancora centinaia di soldati italiani che gli alleati germanici non potevano abbandonare al loro destino.
Bisogna tuttavia rilevare che il comandante del sottomarino tedesco Werner Hartenstein, al di là della ‘ragione politica’, aveva già provveduto di sua iniziativa sia al soccorso dei naufraghi, come risulta chiaramente dal suo primo messaggio: “…con 1500 prigionieri italiani – sino ad ora 90 salvati”; ed è confermato dal successivo messaggio: “HO A BORDO 193 UOMINI, TRA CUI 21 INGLESI. CENTINAIA DI NAUFRAGHI GALLEGGIANO CON CINTURE DI SALVATAGGIO”. Hitler, pur manifestando il suo rammarico per la morte degli italiani, disse che Hartenstein non si sarebbe dovuto occupare della sorte dei superstiti. Fortunatamente fu solo un parere e non un ordine, infatti l’ammiraglio Raeder concesse a Dönitz di inviare nella zona l’U-506 e l’U-507 e non si oppose all’invio del
Cappellini. I tedeschi coinvolsero nell’operazione anche i francesi di Vichy, chiedendo loro di inviare sul luogo dell’affondamento le navi di stanza a Dakar e riportare a terra i naufraghi salvati dai sottomarini.

Ma la situazione sotto gli occhi di Hartenstein era drammatica e non consentiva indugi. Pur avendo imbarcato quanta più gente possibile all’interno e all’esterno del sottomarino, ed aver preso a rimorchio tutte le scialuppe di salvataggio rimaste, intorno a lui si dibattevano ancora centinaia di corpi tra le acque. Come se non bastasse il sangue dei feriti aveva richiamato tutti gli squali della zona che avevano già fatto scempio dei vivi e dei cadaveri: “Ne guizzavano tanti in mezzo a noi – raccontò un soldato milanese ai marinai del
Cappelliniaddentavano un braccio, mangiavano a morsi una gamba. Altre bestiacce più grandi, orrende, trinciavano corpi interi” (Trizzino, op.cit.).

Hartenstein, inoltre, si rendeva conto che gli aiuti promessi non avrebbero potuto raggiungerlo prima di 48 ore. La cruda realtà era che un sottomarino con 50 marinai stava affrontando da solo il salvataggio di oltre mille naufraghi. Il comandante tedesco prese quindi un’incredibile iniziativa personale facendo diramare, ‘in chiaro’, un messaggio in lingua inglese in cui chiedeva aiuto a tutte le navi ‘nemiche’ in navigazione, giungendo ad indicare la sua esatta posizione: “If any ship will assist the shipwrecked Laconia crew I will not attack her, providing I am not attacked by ship or air force. I picked up 193 men. 4 degrees -52" south. 11 degrees - 26" west. German Submarine”.
[Qualsiasi nave che soccorrerà i naufraghi della Laconia non sarà attaccata, purchè io non sia attaccato da navi o aerei. Ho già raccolto 193 uomini. 4 gradi-52” sud. 11 gradi, 26” ovest. Sottomarino tedesco]. Il messaggio partì alle 6 del mattino del 13 settembre e venne ripetuto tre volte. Ma nessuna nave inglese rispose all’appello. “The British in Freetown intercepted this message, but believing it might be a ruse de guerre, refused to credit it or to act. [Gli inglesi a Freetown intercettarono questo messaggio, ma credendo che potesse essere un trucco di guerra, rifiutarono di dargli credito o di agire] (Clay Blair, op.cit.).
Finalmente, all’alba del 15 settembre, più di due giorni dopo il naufragio, arrivò l'U-506, raggiunto nel pomeriggio dall'U-507. Il primo raccolse 132 italiani e 10 tra donne e bambini inglesi, e prese a rimorchio quattro scialuppe con circa 250 persone; il secondo prese a bordo 129 italiani, 1 ufficiale inglese, 16 bambini e 15 donne, e a rimorchio 7 lance con 330 superstiti fra cui 35 italiani. Hartenstein rimase con 131 superstiti tra cui cinque donne. Il giorno dopo Dönitz inviava questo messaggio ai suoi sommergibili: “PER IL GRUPPO LACONIA. AVVISI COLONIALI DUMONT-D'URVILLE - ANNAMITE - ARRIVERANNO PROBABILMENTE MATTINATA DEL 17.9. INCROCIATORE CLASSE GLOIRE VIENE A GRANDE VELOCITA' DA DAKAR. QUI APPRESSO ISTRUZIONI PER CONTATTO”.

A questo punto la tragedia sembrava essere giunta all’epilogo, ma un altro sanguinoso capitolo si stava per aggiungere. Alle 11.25 del 16 settembre sull’U-156 apparve un aereo, un B-24 ‘Liberator’ americano di cui si distinguevano chiaramente le insegne sotto le ali. A bordo del quadrimotore c’erano il tenente-pilota James D. Harden, il tenente Edgar W. Keller, e l’ufficiale di rotta Jerome Periman. Ai loro occhi apparve chiaramente la scena della tragedia: nelle acque circostanti il sottomarino tedesco, sul quale Hartenstein aveva fatto stendere un grande telo bianco con una croce rossa, galleggiavano centinaia di corpi, in gran parte cadaveri, e diverse scialuppe e zattere di fortuna cariche di naufraghi. Dall'U-156 si trasmise in Morse: “QUI SOMMERGIBILE TEDESCO CON NAUFRAGHI INGLESI”. Il pilota americano non rispose. Un inglese chiese ad Hartenstein di trasmetteRE lui un messaggio all’aereo: “QUI UFFICIALE RAF A BORDO SOMMERGIBILE TEDESCO. CI SONO I NAUFRAGHI DEL LACONIA, SOLDATI, CIVILI, DONNE, BAMBINI”. Il pilota non rispose nuovamente e si allontanò.

Alle 12.32 l'apparecchio americano ritornò e bombardò il sottomarino!

Caddero cinque bombe, di cui una centrò una scialuppa e una colpì l’U-Boot causando avarie agli accumulatori ed al periscopio.
Hartenstein ordinò subito di evacuare i naufraghi e, fatte tagliare le cime che trattenevano le scialuppe, s'immerse alla profondità di 60 metri. Quando dopo molte ore riemerse trasmise il seguente messaggio al suo comando: “HARTENSTEIN - STOP - LIBERATOR AMERICANO CI HA BOMBARDATO CINQUE VOLTE CON QUATTRO LANCE CARICHE NONOSTANTE BANDIERA CON CROCE ROSSA DI 4 METRI QUADRATI - STOP - ALTEZZA ERA DI SESSANTA METRI - STOP - I DUE PERISCOPI DANNEGGIATI - STOP - INTERRUZIONE SALVATAGGIO - STOP - TUTTI SGOMBRATI DAL PONTE - STOP - VADO A OVEST PER RIPARARE - HARTENSTEIN. Il 17 settembre, alle 12.22, anche l’
U-506 venne attaccato da un idrovolante che sganciò tre bombe sebbene il sottomarino, con i suoi 142 passeggeri a bordo, si fosse già immerso avendolo scorto in tempo.

Nel frattempo anche il
Cappellini aveva raggiunto la zona. Il mattino del 16 incontrò la prima scialuppa con 50 inglesi ben provvisti di acqua e viveri. Due ore dopo un’altra con uomini donne e bambini inglesi che rifornì di acqua e viveri. Nel pomeriggio incontrò finalmente delle scialuppe con a bordo degli italiani: “..si possono sentire sempre più distinte le invocazioni di soccorso: in milanese, in napoletano, in siciliano. Tutto intorno galleggiano cadaveri profondamente dilaniati dai denti degli squali. Altri hanno le mani staccate come con un colpo d’ascia” (Trizzino, op.cit.). Le scialuppe erano quelle dei naufraghi che erano stati salvati da Hartenstein che, dopo l’attacco americano, era stato costretto da un ordine di Dönitz a sbarcare tutti i superstiti che aveva a bordo.
Il
Cappellini, imbarcati sottocoperta 49 italiani feriti e sistemati sul ponte tutti gli altri naufraghi, cercò per altri quattro giorni le navi francesi di soccorso, che nel frattempo avevano già preso a bordo tutti i superstiti che erano stati salvati dagli U-Boot 506 e 507: più di 700 inglesi, 373 italiani, e 72 polacchi, che arrivarono a Dakar il 27 settembre. Finalmente, alle 8 di domenica 20 settembre, il Cappellini s'incontrò con il Dumont d'Urville del capitano Madelin, a cui consegnò 42 italiani e 19 inglesi. Altri 7 italiani e 2 inglesi rimasero a bordo e seguirono il Cappellini fino a Bordeaux, sede della base navale italiana nell’Atlantico ‘Betasom’. Altri naufraghi del Laconia, un centinaio di sfortunati che avevano trovato rifugio su due canotti, raggiunsero la costa dell'Africa solo dopo diverse settimane in mare. Solo sei di essi erano rimasti in vita.

Tra tutte le fonti consultate è possibile stimare il numero totale dei morti della Laconia tra i 1600 ed i 1700. L’unica cosa certa è che nemmeno un terzo dei 1800 prigionieri di guerra imbarcati a Suez si salvò dal naufragio, mentre le perdite inglesi furono minime: “Morti: 1350 italiani su 1800, contro 11 inglesi su 811”, secondo Trizzino che cita fonti ufficiali. Un sito polacco sui disastri navali della seconda guerra mondiale indica un totale di 1649 morti, di cui 31 polacchi su 103 imbarcati.

EPILOGO
L’attacco americano all’
U-156 impegnato nel salvataggio dei naufraghi della Laconia ebbe una conseguenza che si protrasse per tutta la durata del conflitto. Da allora in poi, infatti, Dönitz ordinò ai suoi sommergibili di non occuparsi più dei naufraghi delle navi affondate. Una decisione che sarebbe diventata un campo di imputazione contro di lui al processo di Norimberga.
Pochi mesi dopo aver salvato i naufraghi della
Laconia, il generoso comandante dell’U-156 ed il suo equipaggio venivano a loro volta affondati al largo delle isole Barbados l’8 marzo del 1943. Nessuno di essi si salvò.
Il sottomarino italiano
Cappellini ebbe una vicenda molto avventurosa. Trasformato in ‘sommergibile da trasporto’ l’11 maggio del 1943 salpò da Bordeaux per il Giappone, con un carico di tonnellate di metalli destinati dalla Germania al lontano alleato orientale. Il 9 luglio raggiunse Saipang (o Sabang) e fu qui che si trovava quando a Tokio arrivò la notizia dell’armistizio italiano dell’8 settembre. Il Cappellini, comandato dal capitano di corvetta Walter Auconi, era pronto per il rientro in Europa e, sebbene parte dell’equipaggio avesse manifestato di voler continuare a combattere a fianco della Germania e del Giappone, l'ammiraglio Hiroaka fece trasferire il sottomarino a Singapore sotto scorta nipponica e qui fece arrestare tutti i marinai italiani internandoli in un campo di prigionia.

Successivamente i giapponesi cedettero il
Cappellini ai tedeschi che lo ribattezzarono U-IT-24 (U-Boot Italiano) e, con un equipaggio misto italo-tedesco al comando dell’Oberliutenent Heinrich Pahls, fu incorporato nella Krigsmarine portando a termine sei successive missioni. Quando a sua volta anche la Germania firmò l’armistizio con gli alleati il Cappellini entrò ufficialmente nella flotta imperiale giapponese con la sigla di I-503 e continuò ad operare fino al termine del conflitto. Dopo la resa del Giappone gli americani lo trovarono ancorato nel porto di Kobe insieme ad un altro sommergibile italiano, il Torelli, anch’esso incorporato prima nella marina tedesca e poi in quella giapponese. Oramai inutilizzabile il Cappellini venne infine autoaffondato dagli americani a largo di Kobe il 16 aprile del 1946.

Dell’affondamento della
Laconia si tornò a parlare il 9 maggio del 1946 al processo di Norimberga quando gli alleati processarono Dönitz per crimini di guerra. L’ammiraglio tedesco, che al termine del processo venne condannato a 15 anni di carcere, si difese proprio con quei documenti che oggi rappresentano le prove della tragedia della Laconia.
L’attacco del Liberator all’U-156 venne ammesso dagli americani solo molti anni dopo la fine della guerra.
Non risulta che dopo il conflitto il governo italiano abbia mai indagato o richiesto informazioni sulle circostanze che portarono alla morte dei 1400 prigionieri di guerra italiani imbarcati sulla Laconia.


Andrea David Quinzi
Chi fosse interessato ad approfondire la triste vicenda della Laconia può consultare i seguenti titoli:
Sopra di noi l’Oceano”, di Antonino Trizzino, Longanesi, Milano, 1968
“Hitler's U-Boat War-The Hunted, 1942-1945”, di Clay Blair, Random House, New York, 1998
“Prigionieri dell'oceano”, di Donatello Bellomo, Sperling&Kupfer, Milano, 2002



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